Noi ci siamo incontrati e abbiamo costruito, abbiamo messo una pietra sull’altra e le singole pietre le abbiamo costruite da soli una ad una; forse per questo non abbiamo casa. La nostra casa è aperta e la nostra voce è forte, ma come in un sogno orrendo, non si sente. La nostra casa è aperta ma fluttua. Attende, respira e immagina, ma dentro ad un deserto che ci soffoca.
Usciamo fuori. Dove c’è il vapore del deserto e la melma del fango. Noi siamo malati di questo mestiere dentro una realtà nostra che non ci vede, in uno spazio occupato da altri, bene di pochi che saremmo anche noi, ma non lo siamo. Non siamo vittime e non siamo innocenti. Nel ventre del mondo insieme ad ognuno, cerchiamo di dire una parola a qualcuno di là, a qualcuno qui accanto.
C’è un gran rumore dentro casa e anche fuori. Ma là dentro, che è dove vogliamo stare, non possiamo sopravvivere. L’altro, tu, il mondo, il passante e il pubblico e il denaro e le energie e la legalità e la fede e la burocrazia e i giornali e il web e i cellulari e le idee e le false idee e la genialità e la mediocrità e la quotidianità non sappiamo più chi siamo e dove e a che pro. Tutto viene trasformato nella maceria romana. L’Urbe regale e rognosa, la città ideale e fatale, la madre di tutte le città ci divora piano. Ci divorano i suoi stessi figli, i suoi occupanti, i suoi ospiti. Mentre noi cerchiamo di mangiare qualcosa, di lanciare un petardo e un gioiello e un suono e una luce soltanto.
Non possiamo risvegliare nessuno.
Però.
Però vogliamo andare a parlare in mezzo ad ognuno, precipitare e irrompere nel momento presente di chi passa, di chi attende, di chi compra e consuma. Per essere con chi passa, con chi consuma e con chi, come noi, attende e vive e respira e vorrebbe non essere ingoiato dalla romana maceria, maceria caput mundi.
Entro – nel mercato, nell’ufficio postale, salgo sull’autobus, – e io sono quella compagine straniera che vive già qui e che ci ostiniamo a cacciare e a non vedere. Entro e parlo e vivo e sono quella donna che mangia i figli, quella sorella che si ribella ai padri, quel profugo che si ostina a tornare, quel soldato che è chiamato a difendere e quello che deve attaccare. E sono l’attore che racconta tutto attraverso la sua pelle. E alla fine, può darsi, che io romperò l’incantesimo e ti mostrerò il conto, ti chiederò l’elemosina con il mio cappello. A meno che la mia furia o il mio pianto o la mia risata non mi trascinino fuori, sazio e ancora affamato. Come sempre, nutrito e magro di sola inutile arte.
Attori presi nel mucchio, attori consumati, attori famosi, attori dimenticati, attori per sbaglio e per caso, presi dalla strada, incontrati per le scale, abitanti del condominio, attori loro malgrado rapiti alle famiglie, orfani di mondo, mercenari fra le rovine, insaziabili, vulnerabili, famelici e soli. Vengono strappati al mucchio secondo necessità. Non lavorano mai tutti insieme o forse a volte sì. Non ce li possiamo permettere in ogni caso.
Stiamo immaginando, annusando, tagliando, costruendo, ritraducendo le tragedie greche.
Per ora, frammenti tratti da ANTIGONE di Sofocle, gli ERACLIDI e le TROIANE di Euripide.
Il luogo è ovunque ci siano persone, i nostri fratelli, i nostri specchi, i nemici, i padri e le madri, i figli, i turisti, i ricchi, gli indigenti, i professionisti, gli studenti, l’umana progenie di Enea. O chi per lui.
La strada, i supermercati, i foyer, i centri commerciali, le piazze, i pub, i ristoranti, i mercati, le stazioni, le metropolitane, i luoghi attraversati da ognuno di noi.
A cura di Lucilla Lupaioli
Organizzazione Bluestocking